mercoledì 19 luglio 2017

Una questione di metodo: un racconto è solo un romanzo più breve?

Quando insegnavo scrittura creativa, oltre a ricevere le classiche domande inutili (come faccio a essere pubblicato? Come faccio a diventare famoso? Tu conosci mica qualcuno in Mondadori / Einaudi / Adelphi / ecc.?), ho avuto l’occasione di approfondire temi più interessanti e di sicuro più centrali nella formazione di uno scrittore.

Uno su tutti: com’è che si scrive? L’immagine del genio scarmigliato e febbricitante che compone capolavori guidato dalla musa (o dalla droga) è stata archiviata, e sappiamo tutti che per scrivere ci vuole metodo.


Ma quale? Impossibile dare una risposta univoca perché, come sapeva bene Bob Dylan, risposta non c’è. Ogni scrittore ha le sue abitudini, le sue manie e i suoi rituali ai quali, efficaci o meno che siano, non rinuncerebbe neanche a sparargli.

C’è chi – Andrea Camilleri, per esempio – scrive qualche pagina, la stampa, la corregge, la riscrive e finisce con l’avvitarsi “in una spirale di carta” (1); chi crea una prima stesura di getto, “vomitata”, che riprende più volte (Aldo Nove); chi prende maree di appunti e parte in quarta da un punto specifico della storia per poi costruirci intorno il resto (Patrizia Carrano); chi prima di mettere mano alla tastiera si documenta fino allo sfinimento e stila biografie dettagliate di tutti i personaggi (Dacia Maraini); chi scrive moltissimo e quindi taglia (Massimo Carlotto) e chi produce poche righe alla volta e non va avanti fino a che non si ritiene soddisfatto.

Leggendario l’aneddoto riportato da Stephen King in On Writing a proposito di James Joyce: “[…] una volta un amico andò a fargli visita e lo trovò crollato sulla scrivania in preda alla più cupa disperazione. «James, cos’hai?» gli chiese. «È colpa del lavoro?» Joyce assentì senza nemmeno alzare il capo a guardarlo. Certo, il lavoro. Non succede sempre così? «Quante parole hai partorito oggi?» lo incalzò l’amico. E lui (ancora accasciato sul tavolo, ancora afflitto): «Sette». «Sette? Niente male, almeno per te.» «Immagino tu abbia ragione» rispose Joyce, sollevando finalmente gli occhi. «Ma non so in che ordine vadano messe!»”.

Il metodo di lavoro cambia poi a seconda di quello che stiamo scrivendo. Se si tratta di un romanzo, avremo bisogno di tempo per raccogliere materiale, pensare alla struttura, tenere conto dei personaggi, del tempo che passa, di tutte le parentesi che potrebbero aprirsi e che da qualche parte si dovranno pur chiudere.

Io preferisco partire creando uno scheletro di base e dividendo la narrazione in capitoli, con relativi riassunti del contenuto, e stendere una prima bozza senza fermarmi troppo per aggiungere e modificare. Dopo riprendo in mano il testo e cerco di capire se l’impianto è solido o se ci sono punti poco convincenti, se mancano raccordi tra un capitolo e l’altro, se la storia si inceppa o, al contrario, fila via fin troppo velocemente.

Conosco colleghi che scrivono capitoli separati e poi li ricuciono nella prima stesura come in un puzzle (o una coperta patchwork), ma è una strategia che per me non funziona perché richiede troppa fatica nell’equilibrare il testo.

Le cose invece cambiano se, anziché un romanzo, ci troviamo a scrivere un racconto. Un racconto non è “un romanzo in meno pagine”, come mi è capitato di sentire, e non è nemmeno una bozza che, se poi viene bene, magicamente si allungherà per farne un “libro vero” (sì, hai indovinato, mi hanno detto anche questo).

Un racconto è un tipo di testo con una sua specificità e delle sue regole, tra le quali la brevità è la più evidente, ma non la più importante. “I racconti sono come le pallottole di un cecchino. Rapidi e sconvolgenti” ha detto Jeffery Deaver, famoso autore di bestseller come Il collezionista di ossa che ha anche pubblicato diverse raccolte di racconti.

Per questo i racconti non possono permettersi zone morte e tempi fiacchi. La struttura deve essere serrata, gli eventi narrati significativi e le scelte linguistiche controllate. Sono come foto istantanee che si sviluppano davanti agli occhi del lettore e concentrano tutta l’attenzione su un unico punto. La storia può anche spaziare nel tempo e nello spazio, ma il focus deve rimanere lo stesso, perché nel racconto non c’è il tempo per seguire tutti i fili narrativi: se ne deve scegliere uno e starci dietro senza perderlo di vista.

Per la mia ultima novella sono partito da un’idea centrale, che era la cosa di cui volevo parlare, e ci ho costruito attorno un contesto, un prima e un dopo, stando però attento a non aggiungere elementi che deviassero l’attenzione dal centro. Sono andato a ritroso, allargando piano piano le maglie dal nucleo alla periferia, e con la mia editor abbiamo poi lavorato molto per cercare di renderla ancora più concentrata, compatta e “fisica”. Che si potesse quasi toccare.

Come scriveva la scrittrice americana Flannery O’ Connor: “La narrativa opera tramite i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto tempo e pazienza ci vogliano per convincere tramite i sensi. Se non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il lettore non crederà a niente di quello che il narratore si limita a riferirgli” (2).

O’Connor ha ragione: scrivere racconti è difficile. In molti ci provano ma pochi ci riescono. Kurt Vonnegut, uno di quelli che ce l’ha fatta, in coda alla sua raccolta Bagombo Snuff Box, scrisse una lista di otto regole da seguire per scrivere racconti brevi(3).

Come tutte le regole in narrativa – e non solo – si possono discutere, scardinare e rivoltare, ma restano molto utili per chi si avvicina al genere. Soprattutto l’ultima: gli scarafaggi sono il peggior nemico di ogni scrittore che voglia farsi leggere. 

1. State sottraendo del tempo a un perfetto sconosciuto, fate in modo che lui, o lei, non sentano di averlo sprecato.
2. Date al lettore almeno un personaggio per cui tifare.
3. Ogni personaggio dovrebbe volere qualcosa, anche se è solo un bicchiere d’acqua.
4. Ogni frase deve fare una delle due cose: rivelare un carattere o mandare avanti l’azione.
5. Iniziate dal punto più vicino possibile alla fine.
6. Siate sadici. Non importa quanto dolci e innocenti siano i vostri personaggi principali, fate accadere loro cose terribili, in modo che il lettore possa vedere di cosa sono fatti.
7. Scrivete per compiacere una sola persona. Se aprite una finestra e fate l’amore con il mondo, per così dire, alla storia verrà la polmonite.
8. Date ai lettori più informazioni possibile il prima possibile. Al diavolo la suspense. I lettori dovrebbero avere una comprensione completa di ciò che sta succedendo, dove e perché, così da poter finire la storia da soli nel caso gli scarafaggi mangiassero le ultime pagine.


Note 

(1) Questa e le curiosità che seguono (sugli autori italiani) sono prese da Trucchi d’autore, di Mariano Sabatini, Nutrimenti, 2005.
(2) Brano tratto da Il volto incompiuto: saggi e lettere su mestiere di scrivere, Rizzoli, 2013.
(3) Le otto regole le ha enunciate Vonnegut stesso, e lo potete ascoltare su Youtube qui (https://youtu.be/nmVcIhnvSx8). La traduzione che leggete sopra l’ho ripresa (togliendo però la d eufonica) da questa pagina (https://www.storiacontinua.com/scrittura-creativa/le-8-regole-di-kurt-vonnegut-per-scrivere-racconti-brevi/)

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